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Conseguenze della violazione dei postulati di redazione del bilancio

Antonio Serafini • feb 08, 2024

Conseguenze della violazione dei postulati di redazione del bilancio

 Il Codice civile stabilisce i postulati di bilancio negli articoli 2423 “redazione del

bilancio”, 2423-bis “principi di redazione del bilancio”, 2423 ter “struttura dello Stato

patrimoniale e del Conto economico”. Nel principio OIC numero 11, quale prassi

applicativa comunemente accettata, vengono declinati i suddetti postulati di bilancio,

indicandoli nella prudenza, nella prospettiva della continuità aziendale, nella

rappresentazione sostanziale, nel principio di competenza, nella costanza nei criteri di

valutazione, nella rilevanza e nella comparabilità.

In merito segnatamente al principio di prudenza, l'articolo 2423 bis comma 1, numero

1, del codice civile prevede espressamente che la valutazione delle voci di bilancio

sia fatta secondo prudenza ovvero nel rispetto della ragionevole cautela nelle stime in

condizioni di incertezza.

Ulteriore applicazione si ritrova nell'articolo 2423 bis, comma 1, numero 2, ove si

dispone che si possono indicare esclusivamente gli utili realizzati alla data di chiusura

dell'esercizio, mentre il comma 1, numero 4 prevede che si deve tener conto dei rischi

e delle perdite di competenza dell'esercizio, anche se conosciuti dopo la chiusura

dell’esercizio stesso.

In sostanza viene delineato un quadro asimmetrico nella contabilizzazione dei

componenti economici, con prevalenza del principio della prudenza rispetto a quello

della competenza. In altre parole, gli elementi negativi devono essere rilevati

interamente anche quando non siano certi, mentre gli elementi positivi possono essere

rilevati solo quando siano certi. Infatti, gli utili non realizzati non devono essere

contabilizzati, mentre tutte le perdite, anche se non definitivamente realizzate, devono

essere riflesse in bilancio. Inoltre il suddetto documento di prassi individua anche

ulteriori fattispecie applicative del postulato di prudenza ad esempio, con riferimento

al trattamento di bilancio delle attività potenziali: le attività e gli utili potenziali,

anche se probabili, non sono rilevati in bilancio per il rispetto del principio di

prudenza, per evitare inammissibili sopravvalutazioni del patrimonio.

Le conseguenze giuridiche della violazione delle regole di redazione del bilancio

sono pacifiche nella giurisprudenza sia di legittimità che di merito.

Ad esempio, la Corte Suprema di Cassazione, sez. sesta civile, 30 settembre 2015, n.

19546, afferma che le norme sulla redazione del bilancio d’esercizio sono

inderogabili, in quanto la loro violazione determina una reazione dell'ordinamento a

prescindere dalla condotta delle parti e rende illecita la delibera di approvazione e,

quindi, nulla. Tali norme, infatti, non solo sono imperative, ma contengono principi

dettati a tutela, oltre che dall'interesse dei singoli soci ad essere informati

dell'andamento della gestione societaria al

termine

di   ogni   esercizio,   anche

dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno

diritto a conoscere l'effettiva situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente. (si

vedano anche: Cass. 13031/14; Cass. 28/13)


Lo stesso principio si rinviene anche nella giurisprudenza di merito. Ad esempio,

Tribunale di Roma, sez. 13 civ. (28.12.2016, nr. 24191): le norme poste

a tutela

dell'interesse collettivo dei soci o dei terzi estranei alla società, come quelle  relative

alla formazione del

bilancio

 sono inderogabili e la loro violazione è sanzionabile con

la nullità. La medesima pronuncia si rinvia a sua volta alla giurisprudenza  della

Suprema Corte, che ha recentemente chiarito che "Le norme dirette a garantire la

chiarezza e la precisione del

bilancio

di esercizio sono inderogabili in quanto la loro

violazione determina una reazione dell'ordinamento a prescindere dalla condotta delle

parti e rende illecita la delibera di approvazione e, quindi, nulla. Tali norme, infatti,

non solo sono imperative, ma contengono principi dettati a tutela, oltre che

dall'interesse dei singoli soci ad essere informati dell'andamento della gestione

societaria al

termine

di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che

con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere l'effettiva

situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente. (Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 13031 del

10/06/2014, Rv. 631360)".)

In senso conforme anche

Tribunale di Perugia, 04 giugno 2018, n. 798 e Tribunale di

Trieste, 28 giugno 2021 nr. 376.

Autore: Antonio Serafini 10 mar, 2024
Circa due anni e mezzo (ottobre 2021) fa abbiamo cominciato a parlare, proprio su questo sito, della tassazione degli influencer. In quell'occasione abbiamo dato uno sguardo al fenomeno nel suo complesso, individuando le principali fattispecie di tassazione. In questi due anni e mezzo la normativa è andata evolvendosi per adattarsi al nuovo fenomeno sociale e alla nuova tipologia di lavoro. Naturalmente l'evoluzione della normativa rimane molto più lenta dell'evoluzione della realtà, ma sono stati fatti importanti passi avanti. La Direttiva dell'Unione Europea nr 504 del 2021 è stata recepita nel nostro Paese a mezzo del Decreto legislativo nr. 32 del 2023. Proprio quest'anno, poi, l'Amministrazione finanziaria ha emesso sul tema una circolare, la numero 22931 del gennaio del 2024, ed infine è stato siglato un protocollo d'intesa tra l'Agenzia delle entrate e la Guardia di finanza, finalizzato a coordinare i controlli dell'Amministrazione finanziaria nello specifico settore. Le norme europee e nazionali nonché le circolari amministrative puntano sull’aspetto che evidentemente è il più facile da mettere ed anche quello più remunerativo e interessante ai fini della tassazione: in sostanza è stato previsto l'obbligo per qualunque piattaforma digitale comunitaria (ma anche extracomunitaria nel caso in cui sia visibile nel territorio comunitario) di dichiarare le somme versate agli influencer. In tal modo gli ispettori hanno a disposizione un dato certificato e rilevante, da cui partire per una serie di controlli incrociati sia sul tenore di vita, spesso ostentatamente esibito dall'influencer, che sulle effettive dichiarazioni fiscali presentate. Ciò naturalmente in caso di dichiarazioni presentate. La cronaca di questi giorni ci riporta alcuni esempi di influencer che erano del tutto sconosciuti al fisco. Peraltro si tratta di persone che operano in settori borderline , come la produzione di contenuti per adulti, a loro volta soggetti ad una c.d. “tassa etica”. In questo caso però non può essere difficile per l'amministrazione finanziaria risalire all'identità degli influencer proprio perché una delle modalità, anzi la più evidente, di svolgimento di questa particolare attività è proprio la pubblicizzazione della propria persona, attraverso i canali social; canali dunque facilmente accessibili da chiunque ed in particolar modo dall’amministrazione finanziaria. Sembra quindi che i tempi siano maturi per u  na tanto attesa operazione di equità fiscale.
Autore: Antonio Serafini 28 apr, 2022
Commento alla sentenza della Cassazione 12004 del 1.04.2022 circa l'utilizzo delle dichiarazioni dell'indagato nel verbale di constatazione.
Autore: Antonio Serafini 14 nov, 2021
Tutela possessoria nel contratto di concessione tra privati.
Autore: Antonio Serafini 31 ott, 2021
In questo articolo si tratta la spinosa questione della tassazione degli influencer.
Autore: Antonio Serafini 27 giu, 2021
In caso di reati tributari commessi da società, il cui profitto - superando lo schermo societario - sia attribuito a un terzo ritenuto dominus effettivo dell’attività economica, l’irrogazione della confisca di prevenzione nei confronti dello stesso dominus presuppone che sia stata dimostrata la sproporzione tra la disponibilità a qualunque titolo di beni del dominus, acquistati o incrementati in tempi coincidenti con l’evasione, ed il corrispondente reddito complessivamente attribuibile ad esso, ivi compresi i redditi formalmente maturati in capo alle società-schermo. Le norme rilevanti sono le seguenti: a. Fattispecie di evasione di cui al D.lgs. n. 74 del 2000; a tal proposito la Suprema Corte precisa che non si devono distinguere le ipotesi di dichiarazione infedele (art. 4) da quelle sicuramente più gravi di dichiarazione fraudolenta (art. 2 e 3), perché anche nel caso di dichiarazione infedele il reddito prodotto dall’autore del reato, pur essendo di origine lecita, diviene comunque illecito nel momento della dichiarazione infedele, e quindi “lascia immutato il disvalore comunque sotteso all’accumulazione garantita dall’evasione di imposta, realizzata oltre le soglie di punibilità previste ex lege”. b.Articolo 1, lettera b) del D.lgs. n. 159 del 2011 (codice antimafia): “I provvedimenti previsti dal presente capo si applicano a ... coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; c.Articolo 24 del D.lgs. n. 159 del 2011 (codice antimafia): “ il Tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare può avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini dell’imposta sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. In ogni caso il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale”. La Cassazione, con la sentenza in commento precisa i termini, i limiti e le modalità da seguire per poter correttamente applicare la confisca di prevenzione, prevista dal codice antimafia, che si sostanzia in una misura patrimoniale a vocazione definitiva adottata all’esito di un giudizio, che solitamente, ma non necessariamente, prende avvio con l’adozione della misura provvisoria ed anticipatoria del sequestro. Nella sentenza viene richiamata e ribadita l’importanza del principio, ormai consolidato, del riferimento “temporale” della pericolosità, nel senso che sono suscettibili di confisca soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale (cassazione S.U., Sentenza n. 4880 del 26 giugno 2014); principio peraltro considerato dalla stessa Corte Costituzionale espressione della ragionevolezza e della proporzione della confisca di prevenzione (sentenza n. 4 del 2019). Su un piano generale, l’iter logico da seguire per la corretta applicazione della misura in argomento si articola pertanto nei seguenti passaggi logico-temporali: -Identificazione del momento iniziale della pericolosità; tale passaggio riveste un’importanza fondamentale, perché la misura della confisca può riguardare solo beni acquisiti nel contesto cronologico di espressione della pericolosità sociale o in tempi comunque contigui; con la precisazione che in questo secondo caso è necessario un ulteriore onere argomentativo e probatorio, per giustificare l’attrazione dei beni acquisiti in tempi successivi, seppur contigui, nell’ambito della confisca; -Ricostruzione dell’entità dell’accumulazione illecita derivante da reato; in tale passaggio vanno ricompresi non solo i beni interamente acquistati, ma anche le utilità fatte oggetto di mero incremento di valore, realizzate con le risorse illecite accumulate nel periodo di pericolosità sociale; con riferimento agli incrementi, si pone comunque l’onere di verificare il loro peso relativo, in rapporto al valore complessivo dell’utilità; -Individuazione delle utilità da confiscare, indipendentemente dalla circostanza che siano formalmente intestate al soggetto proposto ovvero siano a qualsiasi titolo nella sua disponibilità. Chiarito il quadro generale di riferimento, la Cassazione si occupa poi del caso particolare della ricostruzione della “sproporzione” tra la disponibilità di beni rispetto al reddito del soggetto proposto, con riferimento alle ipotesi in cui le risultanze processuali abbiano accertato che l’evasione fiscale rilevata sia riconducibile in realtà ad un “imprenditore occulto”, che abbia agito come dominus dell’attività economica, con lo schermo di una o più società di capitali, solo formalmente titolari della detta attività e responsabili della conseguente evasione fiscale. In tale fattispecie, rimarca la Suprema Corte, ai fini del giudizio di sproporzione, il raffronto del valore dei beni acquisiti va fatto non solo con il reddito formalmente in capo al “dominus”, ma anche con il reddito “lecito” (non oggetto di evasione) prodotto dalle società-schermo e sostanzialmente da considerare in capo al dominus di fatto. Soltanto nel caso in cui il valore dei beni acquisiti sia sproporzionato rispetto al reddito dell’imprenditore occulto sommato al reddito “lecito” delle società schermo, si potrà applicare la confisca di prevenzione. Nel caso di specie, nei precedenti gradi di giudizio sulla misura della confisca non si era tenuto conto dei redditi non evasi prodotti dalle società-schermo: di qui l’annullamento del decreto impugnato e il rinvio ad altra sezione della Corte di appello competente. Va infine segnalato un ulteriore aspetto: la irrilevanza nella materia in argomento di un eventuale accertamento con adesione. Infatti, a giudizio della S.C., “l’accertamento con adesione, in linea di principio, lascia inalterato l’illecito penale sintomatico della pericolosità sociale: il recupero di imposta che garantisce, neutralizza solo ex post, e tardivamente, l’accumulazione patrimoniale illecita in origine favorito dall’evasione, destinata a fotografare, in termini non più reversibili, un’abitudine al sostentamento economico, laddove riscontrata in termini di decisiva sensibilità, legata alla riscontrata azione illecita”. Sull’argomento sarebbe forse necessario un compiuto approfondimento, soprattutto alla luce dell’evoluzione normativa in materia di reati tributari: le recenti riforme hanno infatti dato grande rilevanza agli istituti conciliativi, ed in primo luogo all’accertamento con adesione, proprio nell’ambito del processo penale tributario ed in particolare sotto il profilo dell’estinzione del reato o comunque della diminuzione delle pene.
Autore: Antonio Serafini 11 apr, 2021
Il ricorso ai riti alternativi è uno degli aspetti più controversi del diritto penale tributario: sconta infatti tutte le oscillazioni, talvolta “umorali”, del Legislatore in tema di repressione penale e di lotta all’evasione. Il risultato è un quadro normativo per nulla lineare, che la giurisprudenza deve dipanare. La sentenza della Corte di Cassazione penale, Sez. 3°, nr. 11620 del 2021, affronta il tema del patteggiamento per i reati di omesso versamento (art. 10 bis, 10 ter e 10 quater co. 1 del D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74), infedele e omessa dichiarazione (art. 4 e 5 dello stesso D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, cui dal 25.12.2019 si sono aggiunti anche l’art. 2 e art. 3, dichiarazioni fraudolente) è interessante perché consolida l’orientamento favorevole alla possibilità di patteggiamento senza il preventivo pagamento del debito tributario. Le norme rilevanti sono gli art. 13 (Causa di non punibilità. Pagamento del debito tributario) e 13 bis (Circostanze del reato) del D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74. L’art. 13 stabilisce che il pagamento del debito, anche a seguito di speciali procedure conciliative, di adesione o di ravvedimento operoso, comporta la non punibilità, distinguendo: -Reati di omesso versamento (art. 10 bis, 10 ter e 10 quater co. 1), quando il debito venga estinto prima dell’apertura del dibattimento di primo grado; -Reati dichiarativi (art 4 e 5, omessa o infedele dichiarazione, cui dal 25.12.2019 si sono aggiunti anche l’art. 2 e 3, dichiarazioni fraudolente): solo quando il debito venga estinto prima che l’autore abbia avuto formale conoscenza di qualunque attività di accertamento amministrativo o penale. L’art. 13 bis disciplina, per quel che qui interessa, due aspetti. Al primo comma prevede una circostanza attenuante quando, fuori dai casi di non punibilità, il debito venga estinto mediante il pagamento, anche a seguito di speciali procedure conciliative, di adesione, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Naturalmente la circostanza attenuante in argomento non è applicabile al casi di omesso versamento, perché in tali casi si è già realizzata la non punibilità; ma potrebbe applicarsi ai reati dichiarativi, dopo che l’autore abbia avuto formale conoscenza dell’inizio dell’accertamento e prima dell’apertura del dibattimento. Al secondo comma, con espressione infelice, si subordina per tutti i reati tributari l’accesso al patteggiamento (art. 444 cp): -alla ricorrenza della “circostanza di cui al comma 1” (attenuante); -“nonché il ravvedimento operoso”; -“fatte salve le ipotesi di cui all’art. 13, commi 1 e 2” (quindi mantenendo la distinzione tra reati di omesso versamento e tutti i reati dichiarativi, con o senza frode). Quest’ultima locuzione appare pleonastica sul piano concreto, perché evidentemente: a) per i reati di omesso versamento, il pagamento del debito comporta la non punibilità, rendendo superflui sia l’attenuante che il patteggiamento; b) per i reati dichiarativi il patteggiamento dovrebbe essere ammesso - attenendosi solo ad un dato strettamente letterale - a seguito di integrale pagamento, quando quest’ultimo intervenga dopo la formale conoscenza da parte dell’autore del reato dell’inizio di un accertamento amministrativo o penale; qualora invece il pagamento venisse effettuato prima di tale conoscenza, si realizzerebbe la causa di non punibilità. Sulla condizione del pagamento del debito per l’ammissione al patteggiamento, la giurisprudenza di legittimità non è univoca, essendosi formati due distinti orientamenti. ​ Il primo orientamento, più strettamente legato alla lettera della legge e segnatamente al comma 2 dell’articolo 13 bis, afferma che per i reati dichiarativi - diversamente che per gli omessi versamenti - la causa di non punibilità è subordinata al pagamento prima dell’inizio dell’attività di accertamento, concludendo che, ove non sia avvenuto detto pagamento “anticipato”, non si può accedere al patteggiamento senza il previo pagamento del debito tributario (Cass. 47287/19; Cass. 26529/20) Il secondo e prevalente orientamento, cui si ricollega espressamente la sentenza citata (nr. 11620/2021), fa leva invece su un’interpretazione sistematica, per cui “o l’imputato provvede ... al pagamento del debito”, nei termini diversi previsti per le differenti fattispecie, “ovvero non provvede ad alcun pagamento, restando in tal modo logicamente del tutto impregiudicata la possibilità di richiedere ed ottenere l’applicazione della pena per i medesimi reati” (Cass. 38684/18; Cass. 48029/19; Cass. 10800/19; Cass. 7415/21). Alle stesse conclusioni, per tutti i reati dichiarativi, anche con frode, giunge il Massimario della Suprema Corte, nella Relazione sulle novità normative recate dalla legge 19.12.19 nr. 157, di conversione del DL 26.10.19, nr. 124 (Relazione nr. 3/20 del 9.1.2020).
Autore: Antonio Serafini 11 mar, 2021
Le aziende italiane, salvo che non rientrino nei settori che tutto sommato sono stati beneficiati dall’attuale congiuntura, stanno attraversando una “tempesta perfetta” sotto gli occhi di tutti. Uno dei aspetti più critici che l’imprenditore deve affrontare è il ricorso al finanziamento bancario, diventato estremamente difficile per vari motivi, tra cui la tenaglia costituita dagli effetti congiunti delle rigidissime norme introdotte per disciplinare ed arginare gli abusi del sistema finanziario e dall’improvvisa esplosione della pandemia. Il risultato è la persistente difficoltà ad ottenere dal sistema bancario sia il finanziamento vero e proprio, sia altre prestazioni accessorie. Ciò comporta, tra i tanti effetti, anche una difficoltà per l’impresa a prestare garanzia nell’ambito dei contratti di produzione o di appalto, soprattutto in ambito transfrontaliero. Tuttavia l’imprenditore che abbia un adeguato volume di attività può ricorrere a strumenti previsti dall’ordinamento, come ad esempio la cessione di credito a scopo di garanzia. In particolare, l’imprenditore può ottenere da un altro soggetto (ad es. un partner commerciale) la fidejussione su proprie prestazioni contrattuali, fornendo al contempo al proprio garante una “controgaranzia” costituita da propri crediti vantati nei confronti di soggetti terzi, non ancora liquidi ed esigibili. Si tratta di un istituto ampiamente riconosciuto anche dalla giurisprudenza (si veda tra le tante Cass. Ord. Nr. 10092 del 28.5. 2020, che rimanda anche ai principi stabiliti in Cass. 4796/2001 e Cass. 3797/1999) Infatti, la cessione del credito può avere una causa variabile e quindi può perseguire anche una funzione esclusiva di garanzia. Come la cessione ordinaria (datio in solutum), produce l’effetto traslativo del diritto di credito, che passa dal patrimonio del cedente a quello del cessionario. Diversamente dalla cessione solutoria, però, la cessione a scopo di garanzia (cessio in securitatem) non ha lo scopo di estinguere un’obbligazione ma di rafforzarne un’altra. Pertanto: - il cessionario è legittimato ad azionare sia il credito originario sia quello ceduto in garanzia; - qualora si verifichi l'estinzione dell'obbligazione garantita (originaria), il credito ceduto a scopo di garanzia, nella stessa quantità, si ritrasferisce automaticamente nella sfera giuridica del cedente (con un meccanismo analogo a quello della condizione risolutiva). Riportiamo di seguito una bozza di contratto di cessione di credito a scopo di garanzia, riferito alla opportunità di controgarantire la fidejussione prestata da un terzo nell’ambito di un contratto di appalto in capo al cedente del credito.
Autore: Antonio Serafini 27 gen, 2021
Ritenuta sulle provvigioni ad agenti non residenti, la materia è regolata dal comma 8 dell’art. 25 bis del DPR 600/1973.
Autore: Antonio Serafini 31 dic, 2019
I risparmiatori traditi dalla Banca Popolare di Bari devono rapidamente correre ai ripari se vogliono recuperare - almeno in parte - i danni subiti. Il primo passo è chiedere alla banca copia dei documenti relativi all’acquisto delle azioni fino a 10 anni indietro al solo costo di fotocopia, così come recita l’art. 119 del TUB; in caso di violazione di tale obbligo la banca può essere costretta dal Tribunale a consegnare la documentazione ed a pagare una penale per ogni giorno di ritardo nella consegna. Una volta ottenuti i documenti, si potranno verificare le eventuali violazioni da parte della Banca e procedere con l’azione legale. Alcune violazioni sono state già accertate dalla magistratura: Titoli illiquidi, violazioni sul mercato di negoziazione interno, violazioni sui questionari Mifid e violazioni sul pricing. Sono queste infatti le violazioni contestate da Consob nel 2018, e confermate dalla Corte di Appello di Bari nel 2019 con tre distinte sentenze, alla Banca Popolare e diversi componenti del Cda nel periodo 2012-2016. Si legge, a proposito della natura illiquida dei titoli e delle omesse informazioni da parte della banca che: “ Tempi medi per la vendita delle azioni, indicati in 70,4 giorni, erano certamente incompatibili con la pronta liquidità delle azioni” cui si aggiunge che “una completa ed adeguata informazione non avrebbe potuto prescindere dall'inserimento di intervalli di prezzo più bassi emersi nelle perizie di Deloitte relative agli anni 2014 e 2015, con effetto benefico per gli investitori, indotti ad una maggiore e migliore ponderazione sulla convenienza degli investimenti”. Anche il sistema interno di vendita delle azioni, quello antecedente al 2017, il cd “borsino”, come denunciato dalla associazioni in tempi non sospetti, è risultato inidoneo ad assolvere alla funzioni per le quali avrebbe dovuto operare. Sempre la CDA sentenzia: “il sistema di scambio interno alla banca, cui la stessa fa rifermento, non presentava i requisiti minimi secondo la direttiva MIFID I (2004/39/CE) per essere qualificato come mercato non regolamentato, nel quale come emerge dal rapporto ispettivo della Banca d’Italia del 21.03.17 avrebbe potuto includersi i MTF ” Molto più severa, se possibile, è la sentenza della Corte di Appello sulle procedure di profilazione degli utenti : La violazione in oggetto, come si desume dall'atto di accertamento Consob riguarda in primo luogo la profilatura dei clienti, attuata mediante utilizzo di questionari. Il risultato di tale modalità di elaborazione delle informazioni fornite dal cliente costituito dal fatto che l'obiettivo di investimento conservativo era associato a soli n. 300 investitori, a fronte di n. 26.000 clienti (piú della metà del totale) che aveva dichiarato espressamente di voler proteggere il capitale investito. La violazione n. 1, poi, si estende anche al tema della profilatura dei prodotti , poiché : in virtù della policy adottata, sia in epoca anteriore a ottobre 2015 sia in epoca successiva, la classificazione, sotto il profilo del rischio, sia delle azioni sia delle obbligazioni di propria emissione (BPB), è risultata inappropriata, soprattutto se raffrontata con analoghi prodotti di Banche quotate in borsa e incluse nel paniere principale del mercato italiano. Tuttavia, come correttamente rilevato tale modalità operativa, in difetto di presidi idonei ad assicurare certezza della data di ricezione dell'ordine di vendita, non garantiva l'oggettivo rispetto della priorità temporale degli ordini, e, per un verso, offriva il destro ad impieghi distorti e, per altro verso, avrebbe potuto pregiudicare la possibilità di esecuzione dell'ordine stesso nel corso di una delle aste svoltesi nel frattempo ” Da ultimo, la violazione sul prezzo dell’azione : “ nonostante l'articolata analisi operata dall'advisor, il consiglio di amministrazione di BPB (con la supina adesione del collegio sindacale e l'inerzia delle funzioni di controllo interno) ha stabilito, per ciascun anno del triennio in considerazione, il prezzo delle azioni senza adeguata motivazione, omettendo ogni analisi delle relazioni di Deloitte in ordine ai metodi considerati, alle scelte operate e alle assunzioni poste a base dei metodi prescelti e ai relativi risultati (cfr, par. 4 dell'atto di accertamento )”. Le succitate violazioni, tuttavia, sembrano affondare le radici anche in anni precedenti, già dal 2008/2009: sulla base dei documenti che i risparmiatori presentano ad Adusbef , infatti, le errate profilazioni, le errate informazioni sulla natura dei titoli si spingono anche oltre il limite temporale indicato. Sono centinaia i casi di risparmiatori che già nel 2008/2009 avevano acquistato titoli BPB e si sono ritrovati nelle categorie individuate dalla Corte di Appello di Bari.
Autore: Antonio serafini 01 dic, 2019
Il c. d. concordato “in bianco”, anche detto “con riserva” è stato introdotto nel nostro ordinamento dal D.L. 22 giugno 2012, nr. 83 e più volte modificato nel tempo, fino ad essere poi ricompreso, con regole ulteriormente riformate, nel nuovo codice della crisi d’impresa. Nelle intenzioni del legislatore, l’istituto dovrebbe consentire all’impresa in difficoltà di definire in tempi ragionevoli i termini della proposta e del piano per accedere ad un concordato preventivo, tenendo al contempo il patrimonio aziendale al riparo da iniziative di singoli creditori. Si è trattato comunque di un istituto molto “divisivo” nelle interpretazioni di dottrina e giurisprudenza, che da un lato ha effettivamente dato luogo ad abusi e da altro lato ha scontato una sorta di pregiudizio ideologico nei confronti delle procedure fallimentari c.d. minori. In questa sede ci proponiamo di fornire una rassegna delle varie pronunce di legittimità che costituiscono l’orientamento prevalente, favorevole alla prededucibilità dei crediti dei professionisti che assistono il debitore nella procedura diretta all’omologa di un concordato preventivo, scaturente da una domanda “in bianco”. La norma rilevante è l’articolo 111 co. 2 della LF, che considera “prededucibili” - e come tali soddisfatti con preferenza rispetto agli altri - i crediti sorti “in occasione o in funzione delle procedure fallimentari” di cui alla Legge Fallimentare. Ciò, naturalmente rileva soprattutto quando il concordato non vada a buon fine ed in seguito sopraggiunga il fallimento. La ratio è individuabile nell’intento del legislatore di favorire il ricorso al concordato preventivo. Va detto che sul punto la giurisprudenza non è completamente uniforme, anche se la Suprema Corte ha negli ultimi cinque anni elaborato un indirizzo che può considerarsi di gran lunga prevalente, che di seguito passeremo ad illustrare brevemente. L’altro indirizzo interpretativo, decisamente minoritario in Cassazione e con maggiore appeal nelle Corti di merito, sostiene che per potersi attribuire la prededuzione ai crediti di cui trattiamo è necessario effettuare un giudizio ex ante sull’utilità per la massa dei creditori e comunque sull’ammissibilità - sempre ex ante - della proposta concordataria. Per quanto riguarda l’indirizzo prevalente, la Cassazione dal 2014 ha intrapreso un percorso evolutivo volto ad affrancare la categoria dei crediti prededucibili in ragione del loro carattere funzionale dal presupposto di un controllo giudiziale sulla loro utilità (sent. N. 5098/14; n. 6031/14; 19013/14). Numerose successive sentenze della Cassazione hanno ulteriormente precisato il concetto: - sentenza n. 280/2017 : la funzionalità è ravvisabile quando le prestazioni .. confluiscano nel disegno di risanamento predisposto dal debitore in modo da rientrare in una complessiva causa economico - organizzativa almeno preparatoria di una procedura concorsuale; - sentenza n. 1182/2018 : l’utilità concreta per la massa dei creditori ... non rientra nei requisiti richiesti e nelle finalità perseguite dalla norma e non deve perciò essere in alcun modo indagata; - sentenze da 14713/2019 a 14733/2019 (su IL CASO.it, 10.06.19): la consecuzione tra le procedure dipende unicamente dalla mancanza di discontinuità dell’insolvenza; principio di recente puntualizzato dalla Suprema Corte, su sollecitazione del Procuratore Generale presso la Corte stessa, ai sensi dell’art. 363 cpc co. 1, proprio al fine di affermare e consolidare un indirizzo interpretativo univoco sul tema. Illuminanti in tal senso sono le parole dalla Suprema Corte: “La collocabilità in prededuzione di crediti caratterizzati secondo la tripartizione della L. Fall., art. 111, ...postula un accertamento di consecutività tra il concordato e la procedura successiva. ... La consecutività può escludersi solo ​ allorchè si registri una discontinuità nell’insolvenza, per essere cioè il fallimento conseguente ad una condizione di insolvenza non riconducibile ad una condizione di crisi originaria. Ove invece il fallimento abbia causa nella medesima originaria situazione di insolvenza - anziché, per esempio, nella gestione dell’impresa successiva al concordato - non può sostenersi che la consecutio venga meno per rinuncia alla domanda di concordato. Semmai la rinuncia costituisce un serio indice del contrario, vale a dire che il succedersi delle procedure sia avvenuto nel contesto dell’unica condizione di insolvenza”. - sentenza n. 15724/2019, dep. 11.6.201 : la prededuzione attribuisce non una causa di prelazione, ma una precedenza processuale, in ragione della strumentalità dell’attività da cui il credito consegue agli scopi della procedura, onde renderla più efficiente; la consecuzione è un fenomeno generalissimo consistente nel collegamento tra procedure concorsuali di qualunque tipo, volte a regolare una coincidente situazione di dissesto dell’impresa; il fenomeno della consecuzione funge da elemento di congiunzione tra procedure distinte e consente di traslare dall’una all’altra procedura la precedenza procedimentale in cui consiste la prededuzione. - Sentenza n. 25471 dep. 10.10.2019 : il credito del professionista incaricato di redigere l’attestazione di cui alla LF, art. 111, co. 3, è sempre prededucibile, anche quando il concordato non venga aperto, o la domanda viene dichiarata inammissibile o l’attestazione sia negativa. - Sentenza n. 27538 del 28.10.2019 : non vi è dubbio che il credito del professionista che abbia funto da advisor legale nella predisposizione della domanda di concordato rientri tra i crediti sorti in funzione di quest’ultima procedura e, come tale, a norma dell’art. 111 co. 2 della LF, vada soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento, senza che, ai fini di tale collocazione, debba essere accertato, con valutazione ex post, che la prestazione resa sia stata in concreto utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti. L’interpretazione della Suprema Corte, sopra brevemente richiamato, parrebbe ormai consolidato. Tuttavia, poiché permane una qualche incertezza - soprattutto nelle Corti di merito - è auspicabile un intervento delle SS.UU della Cassazione, per affermare un orientamento interpretativo univoco. Altrimenti i professionisti incaricati di assistere le imprese in difficoltà finiranno per assumere su di sè il rischio d’impresa, che - com’è evidente, trattandosi per definizione di un’impresa in crisi - è un rischio altissimo.
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